Parlando con Fatimouch..

La prima volta che ho sentito un pezzo di Fatimouch era questo:

Ricordo bene la donna che lo condivise su uno di questi social network che, se usati bene, sono capaci di connetterti -velocemente- con persone -e progetti- meravigliosi e sparsi per un mondo, che, guardato così –illusione– non ha più confini.

Ricordo l’impatto della sua voce e la sensazione di radicamento che mi trasmettevano le sue parole.

fatiNon sapevo niente di “spoken words”.

Non sapevo nemmeno che lei, Fatima Bouhtouch -nata in Italia nel 1994- avesse scritto un libro e che lo avesse chiamato “Come Alberi”.

Proprio così, aveva parlato degli alberi e delle radici, un tema così caro al mio animo e così necessario nel mio modo di sentirmi Libera.

 

La diretta con Fatimouch mi ha entusiasmata perché lei ha avuto la rara capacità di stupirmi. Frase dopo frase, mostrando pezzi di saggezza velo dopo velo.

Mi chiedevo: quanto può continuare a sorprendermi una sua risposta?

Senza urlare, senza stra-parlare. Ha utilizzato termini scegliendoli con cura per poi appoggiarsi, nel posto corretto- lungo le frasi. Vi ricordate quell’esercizio delle scuole elementari in cui inserire le parole?
Così.
Arriva azzeccata, ecco.
Arriva lapidale pur esprimendosi con grandissima delicatezza e cura.

alberi

Ha un altro dono, Fatima: trae linfa, ispirazione, energia, dalle radici piantate in Marocco – nel Magribi del mio cuore- e rappresenta l’Italia che già siamo.

Quella che, una parte imbecille e anacronistica del Paese, ignora e -nei peggiori casi- discrimina. Scelta idiota e anche miope perché le seconde generazioni (così vengono definiti i figli e le figlie di famiglie immigrate) sono -invece- ricchissime ancora prima di trovare il proprio posto di lavoro.

Perché?

 

 

Perché hanno le radici in Africa, i piedi in Europa e la testa ancora oltre.
Hanno (almeno) “due lingue che ballano sul cuore” (cit.)
Hanno genitori che come dice Fatimouch, “sono stati coraggiosi”.

 

Lei ha pure la musica e la poesia che, unite, diventano un formidabile strumento narrativo e di costruzione – e ri-costruzione-  identitaria.

Fatima non vuole essere un modello, espone il suo punto di vista e descrive la sua storia personale con la propria voce.  Desidera. Portare. Semplicemente. Sé.
Non intende farsi rappresentante o essere presa come un punto di riferimento quando si parla di islam –una faccenda personale-, per esempio, o di figli di cittadini immigrati.

Ci tiene parecchio a sottolinearlo, io però non posso ignorare la mia storia da educatrice sociale e non pensare ai ragazzini e alle ragazzine di origine straniera di cui mi sono occupata: occhi persi all’arrivo e spesso anche dopo qualche tempo in un contesto, quello d’approdo, complesso: attraente ma respingente, non ancora in grado di dare il giusto spazio -ed la giusta codifica al linguaggio (e non sto parlando solo di alfabeto)- alle nuove generazioni, in generale, ma con ancora più difficoltà quando si parla di figli di stranieri.

Ricordo occhi neri a cui avrebbero fatto bene occhi di adulti in cui rispecchiarsi.
Dico, adulti che son stati capaci di essere il ponte tra due coste.
Adulte che di quelle differenze, potenzialmente faticose da gestire, hanno saputo realizzare uno strumento in più da maneggiare.

Adulte che con quelle due lingue sono state capaci di giocarci così:  

Adulte che hanno il radicamento e l’esperienza per rispondere alle domande imbecilli e concludere il discorso con uno sguardo così:

Adulte che sono cresciute ma che erano ragazzine e prima ancora, bambine.

Immagino, con la dolcezza che trasmette Fatima nel suo libro, le insegnanti della scuola elementare che, in provincia di Modena negli anni ’90, non erano così preparate come lo sono ora ad accogliere una bambina arabofona, ma che ci sono riuscite e hanno dato la penna a quella che è diventata, scoprendo fin da subito una grande passione per i libri e la narrazione, una scrittrice ed autrice di spoken words, un modo diretto di dire le cose e di farle arrivare.

fati

E a me? Cosa è rimasto a me da questo incontro?

Innanzitutto, una forte vicinanza sui temi del femminile e dell’emancipazione.
La sensazione di energia necessaria per intraprendere il cammino verso la realizzazione dei propri sogni, la ricerca del proprio posto nel mondo ed il viaggio come strumento di riappacificazione con il proprio sé e le proprie origini.
Leggendo il libro ho rivisto una terra con cui ho un legame strano, poco spiegabile, una terra a cui sento di appartenere ma che non mi appartiene: il Marocco, ancora, anno dopo anno.
Questo incontro mi ha regalato, in modo chiaro, la sensazione che andare oltre ciò che ci viene comodo fare è, infine, il modo più efficace di crescere ed avere esperienze entusiasmanti perché veramente “non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose”.

Hkti, chokran!
Sorella, grazie!

 

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