Un mese fa ho comprato un biglietto per Mahe, Seychelles.
E’ una di quelle mete che la “me di qualche tempo fa” non si sarebbe nemmeno mai sognata.
Perché concedersi di godere così tanto quando si può godere così così?

Prima di effettuare l’acquisto ero in prenda a una sorta di follia generalizzata,
un pulsante che se cliccato mi proiettava in un mondo delle meraviglie, un’isteria raramente provata prima…. poi il giorno dopo essermi trovata il biglietto in mano [e una cifra a tre zeri in meno sul conto] l’entusiasmo si era normalizzato.
Vado alle Seychelles.
Ciò che 24 ore prima mi esaltava come Babbo Natale a 5 anni, era stato metabolizzato. Fine dei coriandoli.
Negli ultimi giorni spuntano ovunque, maledetto e benedetto internet, post sul tema “Non sono nemmeno tornata e penso al prossimo viaggio”, “il tizio ha visitato tutti i paesi del mondo nel minore tempo possibile” e io, da giovane vecchia zitellacolgatto bastian contraria, sento un’irritazione sottocutanea sorgere in me. Forse sono solo invidiosa?
Un pò, ma no, non solo. Anzi, no.
…Ma che davero?
Siamo così occidentali da vivere, anche il viaggio, come un impulso consumista?
Davvero non riusciamo a goderci un viaggio dalla sua preparazione, alla partenza, alla permanenza, [gli incontri, le bellezze, il cibo, l’odore della gente,
i clacson o i silenzi, insomma, tutto] e poi il ritorno, i ricordi, la malinconia, i racconti?
Sul serio, la gioia sta soltanto nel “PRE”?
Davvero, il dopo non ha senso?
Per lavoro frequento uomini e donne di altri paesi, in prevalenza nordafricani e senegalesi, altri ritmi, altra scala di valori, altro concetto di tempo.
Cosa c’entra?
C’entra?
Senza un bel bagno di realismo in mezzo a gente che si è attraversata deserti e mari starei qui a spingere tasti a caso in fantomatiche conversazioni digitali con sconosciuti
che devono stabilire chi è turista e chi è viaggiatore.
Per cui sì, il contatto coi migranti c’entra con la mia concezione spirituale del viaggio.
Tornando alle Seychelles…
Ero sul gabinetto quando ho realizzato che quella sensazione di primavera in esplosione si stava appiattendo.
E ho fatto un clic. Ma col cazzo, disse Lady. Col cazzo che mi ci abituo, col cazzo che “ormai è fatta”.
Il viaggio è sacro, dal primo momento in cui l’idea ti sfiora il cuore ed il cervello…. fino a.. sempre. I ricordi, le evoluzioni avvenute, gli incontri, la bellezza dei luoghi impressa nella mente, la loro mancanza, il ritorno a casa dopo settimane, o mesi, o giorni, di avventura..
tutto ciò rimarrà per sempre.
E mi rifiuto, categoricamente, di comprare un biglietto dopo l’altro in una corsa sfinente verso una lista di città da visitare.
Per fare cosa?
Un altro post sulle 10 capitali europee che non puoi non vedere? Un altro articolo su blablacar [lo vorrei scrivere da mesi!], su flixbus o sul mollare tutto con un viaggio di sola andata?
Chi l’ha deciso quali sono le città giuste?
Chi ha scelto, per me, di cosa ho bisogno oppure voglia adesso?
Perché non possiamo semplicemente goderci quello che abbiamo?
Davvero, “di più” è meglio?
Cosa mi rende davvero felice?
Tiger, con la sua mappa di paesi da grattare dopo averli visti, ci ha forse bruciato un pò il cervello?
Mi rifiuto di pensare ad un altro viaggio mentre sono in viaggio per il semplice fatto che sono stanca di non godermi quello che sto vivendo, nel momento
in cui lo sto vivendo. Perché detesto le persone che stanno al telefono, mentre cenano con qualcuno, ed è lo stesso meccanismo che non ti permette di essere radicata.

Perché la vita è adesso. Ed è qui.
E non c’è un domani, o almeno,
non di sicuro. E l’unico, l’unico, modo di essere felice sul serio è godersi quel che si ha, fosse anche “solo” un corpo sano.
Da quel gabinetto, da quella sensazione, da quel Clic, è tornata l’euforia.
Geniale.
Un attivatore naturale di adrenalina e ossitocina. E ogni 3X2, per la gioia di chi lavora con me, mi parte il “Peppeppeppeppepe Seycheeeeelles!!” con balletto
annesso.
E voglio essere felice di questo viaggio adesso, mentre metterò piede sul primo aereo e ad Addis Abeba, mentre scenderò dal bus a Victoria, mentre stabuzzerò
gli occhi davanti alle tartarughe giganti o mentre mi inchinerò al Tempio Indù [chi ha detto che io voglio passare dieci giorni a trastullarmi on the beach!?]
Voglio essere felice quando, al ritorno, chiuderò gli occhi e continuerò a vedere il bianco di quella sabbia, quando incontrerò un seychellese e saprò riconoscerlo,
insomma,
sempre.
Voglio vivermi il vuoto, la puzza di smog della città, il ritorno alla quotidianità.
La giornaliera ricerca di bellezza e di motivi per stare ferma.
Voglio chiedermi “E’ questa la vita che voglio?” in un pomeriggio con la nebbia, dopo aver perso il treno per tornare a casa, senza soldi e con una fame porca.
Voglio percepire il viaggio dal suo principio fino a quando mi riporta nella vita che ho scelto [perché scegliamo, sempre].
Questo viaggio me lo voglio godere tutto, da quando era uno scherzo con un’amica matta, a finché avrò memoria.
Perché le Seychelles sono un regalo meraviglioso che mi sono concessa.
Sapere che andrò, esserci, esserci stata.
Voglio che i viaggi siano parte della mia vita,
non una fuga.
brava! cogliere l’attimo sempre!
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🙂
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Abbiamo la stessa allergia ai viaggi usa e getta, quelli che si fanno per cancellare un paesino dalla mappa 🙂
Per rispondere alla tua domanda “siamo così occidentali da vivere, anche il viaggio, come un impulso consumista?” io credo proprio che la risposta sia sì. Un vero peccato, per chi si affanna in quel modo.
Ma tu goditi le Seychelles, o dovunque sia, con questa meravigliosa consapevolezza ❤
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Bella riflessione. Purtroppo viviamo in un mondo che ci bombarda con presunti lifestyle improbabili e che letteralmente ci inculca il desiderio di volere sempre di più. Sono d’accordo con te quando dici che l’unica maniera di uscirne per potersi chiamare fuori da questa dinamica è riuscire a fare “click”! Poi se si trova l’interruttore per fare click mentre si è sul gabinetto… bè si pigliano due piccioni con una fava ahah
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