Perchè sei venuto in Italia, Ahmed?
Per gioco.
Non ci pensa prima di rispondere, gli occhi grandi e neri ridono mostrando le gengive viola.

Perché volevi cercare lavoro?
Lo imbecca l’operatrice.
No, no, io sono venuto per divertimento.
Nel mio paese, tutti parlavano dell’Italia. Italia, Italia,
la volevo vedere anche io questa Italia.
Avevo 15 anni e li avevo passati tutti in un villaggio vicino a Kenitra, entroterra marocchino.
Da qui partono tutti quelli che vanno in Italia, gente del popolo, gente le cui facce “non sono mai state viste da un insegnante”, si dice da queste parti, uomini di campagna con il sogno Europeo.
Tanti ce l’hanno fatta, si sono fatti la casa e tornano solo per celebrare il Ramadan, spesso arrivano in macchine stracariche di vestiti, oggetti, scarpe, cioccolato, formaggi.
Qualcuno invece non si è più visto, ma di quelli non se ne parla mai.
I miei genitori avevano un negozio di alimentari nel suq del paese,
io e i miei fratelli aiutavamo nel pomeriggio dopo la scuola.
Se non avessi avuto modo di sapere come si vive in Europa, non avrei pensato di essere povero.
L’ho capito guardando la televisione,
era innegabile: eravamo poveri.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza per me fu questo:
prima mi bastava la piazza del paese, dopo volevo vedere l’Italia.
Perché tutti ci andavano.
Perché si facevano i soldi.
Perché saremmo stati liberi, avremmo potuto vivere in una casa grande senza regole.
Si cominciò a parlare di Italia con Jamal, un ragazzo più grande di noi.
Lui conosceva molte persone e soprattutto, aveva degli amici camionisti.
Per noi era talmente eccitante pensare a questo viaggio che certe notti per me era impossibile dormire e allora andavo sul tetto della nostra casa e mi stendevo sul tappeto blu steso a terra.
Chissà se dall’Italia si vedono le stesse stelle?
Poi iniziò il Ramadan, gli adulti smisero di lavorare e le scuole chiusero,
io e i miei amici eravamo completamente liberi, non che ci fosse molto da fare a Oued Zem,
però, nella piccola rosa di alternative, noi potevamo fare qualsiasi cosa.
Fu così che partimmo.
Partimmo il 7 luglio al mattino presto, ci stringemmo in un gran taxi diretto a “DarbidaDarbida!” senza nemmeno una valigia, nulla, senza nemmeno un dirham in tasca.
Jamal era con noi e alhamdulillah, perché noi a Casablanca non ci eravamo mai stati ed era enorme, non avevo nemmeno mai immaginato così tante macchine tutte insieme e mai sentito così tanto rumore. Jamal ci guardava come si guardano i dementi e aveva ragione:
eravamo entusiasti a tal punto da non riuscire nemmeno a mettere un piede dopo l’altro senza inciampare.
Lui ci guidava come un gregge di pecore: avrebbe potuto portarci ovunque e noi saremmo andati.
Così ci ha condotto a Tangeri pagandoci il biglietto del pullamn.

Voi non potete immaginare quanto è bello il mio paese.
Voi che potete muovervi e non dovete avere paura della Polizia quando siete senza permesso di soggiorno,
andateci.
Fate la strada che congiunge Casablanca a Tangeri.
Spiaccicate il naso contro il finestrino. Guardate quei colori, guardate tutta quella terra. E’ enorme. E’ il paese più grande del mondo ed è sicuramente il più bello!
A Tangeri arrivammo al porto e restammo tre giorni e tre notti,
sembravamo ubriachi ma eravamo solo molto felici.
Troppo rumorosi però e Jamal iniziava a spazientirsi con noi, “i piccoli idioti”.
Finalmente la quarta notte riuscimmo ad infilarci nella “pancia della balena”, un’enorme nave destinata all’Europa,
Genova. Italia!
La nave trasportava frutta e verdura, io finii nella parte delle angurie e all’uscita ero inzuppato e così dolce che gli altri presero a leccarmi le braccia finché
smettemmo di ridere rendendoci conto di essere arrivati.
Un conto è pensare di andare in Italia, un conto è metterci piede davvero.
Sognarlo dal tetto della tua casa di campagna contornato dagli amici che sono come fratelli è divertente e semplice,
ma farlo sul serio..
Noi lo avevamo fatto davvero. E io non lo avevo nemmeno detto a mia madre.
Mi si riempì un nodo alla bocca dello stomaco che salì fino ai molari,
mi sentì piccolo, stupido, davvero un piccolo idiota.
Per fortuna c’era Jamal che non si perdeva mai tra quei vicoli neri pieni di topi,
salutava i commercianti, faceva l’occhiolino alle donne che lo ricambiavano,
sembrava uno del posto. Sembrava un italiano vero.
Noi quattro piccoli idioti lo seguivamo come degli automi. La sola idea di essere abbandonati ci terrorizzava.
Non era rimasto nemmeno un briciolo di quell’entusiasmo iniziale.
Nessuno parlava. Nessuno piangeva, anche se tutti avrebbero voluto farlo.
Dopo qualche giorno Jamal durante la cena, ci disse che era anche giunto il momento
di ripagargli il viaggio. Che eravamo grandi, noi piccoli idioti e che dal giorno seguente avremmo dovuto lavorare: Fu un’iniezione di endorfine,
lavorare voleva dire guadagnare soldi!
Per noi qualsiasi cosa sarebbe stata perfetta.
La mattina seguente Jamal infilò nelle nostre tasche delle piccole palline avvolte nel celophan, io lo so che adesso voi pensate io fossi davvero un piccolo idiota, ma io vi giuro [Allah akbar, se ve lo giuro]
che non lo sapevo cosa fossero.
L’ho capii, anche abbastanza in fretta.
L’ho capimmo tutti e quattro quando però avevamo iniziato a vedere i primi soldi, dieci euro, venti.
Ma lo sai quanto sono venti euro? Duecento dirham. Mio padre magari ci metteva tutto il giorno per guadagnarli,
io venti secondi.
E poi stavamo ripagando il nostro debito, no?
Dopo qualche settimana avevamo preso il ritmo, ci stavamo abituando a Genova, una città sporca, strana, ma che, a modo suo ci aveva accolti.
Era una mattina piena di sole, quella mattina.
Stavamo con Jamal sulla piattaforma del porto a sentire le onde del mare, lo stesso che ci aveva portato in Italia.
Lasciavo pendere le mie gambe oltre il bordo e guardavo il blu dell’acqua, il sole mi cuoceva la testa e mi faceva sudare il collo, quando sentii una mano sulla spalla.
“Documenti”
Trasalii dal torpore del caldo e mi voltai, un uomo bianco vestito di blu.
“Documenti”
Ah? Achno?
“Documenti”, piccolo idiota, “Documenti”.
Io feci giusto in tempo a voltarmi per vedere Jamal di spalle appoggiato al muro,
gli uomini bianchi vestiti di blu lo stavano toccando, gli incrociarono le mani dietro la schiena e gli misero le manette.
Wallah, che successe tutto così veloce.
Per me il tempo si fermò in quel momento, non ho ricordi, non sentivo il sole, nè l’odore del mare, nemmeno il puzzo del barbone della panchina sul molo. Nulla.
Io non ricordo niente tra la mia prima parola di italiano “documenti” e il commissariato.
Adesso, dieci anni dopo vi posso raccontare quello che voi avete già capito:
Jamal era un trafficante di esseri umani ed uno spacciatore. Noi, quel viaggio ce lo siamo ripagati, eccome, vendendo droga nei vicoli e giuro, Allah lo sa quanto ve lo giuro, spero di non aver mai ammazzato nessuno con quella roba. Quel giorno alla piattaforma è stato arrestato perché era maggiorenne e, da tempo, ricercato.
Io e gli altri tre piccoli idioti siamo stati denunciati e collocati in una comunità educativa, un posto molto diverso dalla “grande casa” che sognavamo, ma un luogo che mi avrebbe messo sulla buona strada se io avessi ascoltato.
Non dico bugie, non sono un bugiardo.
Ero troppo piccolo per vivere da solo, senza i miei genitori, senza le nostre regole, senza la mia religione.
Italia Italia. E’ vero che qui siete più liberi, ma io non ero capace di gestire tutto quello spazio e quelle possibilità.
Ti faccio un esempio:
In Marocco avrei aspettato che i miei genitori mi dicessero: “Bene, ora sei abbastanza grande per sposarti, ti cercheremo
una ragazza” e avrei sposato Aicha, Sadia, una delle cugine, ne son sicuro. Avrei aspettato quel momento, ne sono sicuro.
Qui no. Qui ci sono così tante ragazze, sono così belle, ecco. Io ho perso la testa una quantità di volte che non me le ricordo nemmeno tutte.
Poi ci sono le discoteche, i bar, le feste.
Io vengo da un villaggio di emigranti dove l’alcool è venduto in un negozio dalla vetrina oscurata e chi lo compra è un infame, un delinquente o un tossico. Qui no. Qui sei strano se non bevi. Io non volevo essere strano, e nemmeno un piccolo idiota; ma ero troppo piccolo e non ero in grado di gestirmi e di bere una birra, dunque ne bevevo sette di fila e tutte le volte finivo con la testa sul gabinetto.
Ho sentito lo sguardo di mio padre ad ogni birra stappata.
Ho sentito l’angoscia di mia madre. La vergogna dei miei fratelli. L’orrore negli occhi delle mie cugine.
L’unica che, lo sentivo, mi continuava a guardare con amore era jidda, mia nonna, che mi ha cresciuto come un figlio.
Dieci anni e una settimana dopo quella mattina, jidda mi ha telefonato per dirmi che ormai è anziana e che non può più pensare di morire senza rivedere la mia piccola faccia da schiaffi. Ha detto veramente così, mentre rideva, piangevo, piangeva, ridevo.
Sono stato fortunato eh, non sono mica mai finito come Jamal.
Ho fatto delle stupidaggini, qualche rissa fin quando ero minorenne, ho bevuto birra e fumato qualche spinello, ma non ho mai esagerato davvero
e soprattutto non ho mai venduto niente a nessuno.
Per il resto ho lavorato, ho davvero mandato i soldi a casa e mio padre ha ingrandito il negozio, ha organizzato il matrimonio di mia sorella e festeggiato la nascita del suo primo nipote sacrificando un montone che gli ho regalato io.
Fino a una settimana fa avevo una casa e un lavoro, in nero, ma sempre lavoro era, avevo degli amici italiani che mi avevano invitato per festeggiare il Natale con loro, io musulmano, ci sarei andato volentieri.
Avrei festeggiato il capodanno con i miei amici.
Avrei comprato un pandoro con la cioccolata bianca e un prosecco frizzante.
Ma jidda mi ha telefonato.
Jidda ha detto che ormai è anziana e non può più aspettare.
Jidda ha detto che devo tornare e per me non conta più nient’altro:
Voglio andare a casa.